L’immagine e l’assoluto: riflessioni sulla fotografia e i limiti del definire. Di Enzo Comin

Viviamo in un’epoca in cui l’immagine è diventata compagna costante della nostra esperienza quotidiana. Siamo circondati da fotografie che si offrono come se potessero dire tutto, documentare senza margini d’errore, fermare la verità in un punto preciso. È diffusa la convinzione che uno scatto possa racchiudere la realtà in modo definitivo. Tuttavia, se ci soffermiamo a guardare con maggiore attenzione, scopriamo che ogni fotografia porta in sé una contraddizione: più sembra prova certa, più rivela di essere soltanto un frammento, un’interpretazione parziale del mondo.
Il gesto del fotografare, infatti, è sempre un atto di scelta. Davanti a infinite combinazioni di luce, forme e tempi, il fotografo seleziona un punto preciso, un istante particolare, un’inquadratura che esclude tutto ciò che rimane fuori dal campo visivo. La fotografia è dunque una sottrazione: ciò che mostra si stacca dal flusso vitale e continuo della realtà, diventando segno, traccia, simbolo. Ma non l’essenza totale delle cose.
Questa parzialità non nasce solo dai limiti della macchina o della tecnica. Ha radici più profonde, legate alla natura stessa di ogni rappresentazione. La fotografia opera nel dominio del finito, mentre la realtà, nella sua interezza, è sempre eccedente e sfuggente. Uno scatto non cattura un “cos’è”, ma un “così appariva” in un preciso momento. Non chiude, ma suggerisce; non possiede, ma allude a ciò che non può contenere.
Qui si tocca un tema più ampio: il rapporto tra conoscenza e definizione. Definire significa porre un confine, delimitare un oggetto entro un perimetro stabile. È un gesto rassicurante, perché crea un’illusione di controllo, ma nello stesso tempo è un’operazione di riduzione, che isola qualcosa dalla totalità di relazioni che lo attraversano. L’assoluto, per sua natura, sfugge a qualsiasi definizione: ogni tentativo di racchiuderlo lo impoverisce. In questo senso, la fotografia autentica è un varco, una soglia che lascia intravedere ciò che non può essere detto fino in fondo.

La tradizione filosofica ha più volte affrontato questo limite. Eraclito vedeva il mondo come un flusso incessante; la fenomenologia contemporanea ha mostrato che ogni percezione è parziale e condizionata dal contesto. Entrambe queste prospettive ci ricordano che ogni chiusura concettuale o visiva è una semplificazione. La realtà non è un oggetto fisso, ma un intreccio di visibile e invisibile che cambia senza sosta. Quando la fotografia smette di pretendere di dire “cos’è” qualcosa, diventa uno strumento di pensiero, capace di aprire possibilità e non di chiuderle.
Anche l’aspetto tecnico rivela questa relatività. L’obiettivo fotografico è un sistema di lenti studiato per correggere distorsioni e restituire immagini simili a ciò che percepiamo a occhio nudo. Ma la nostra stessa visione è già un’elaborazione, frutto di un meccanismo ottico e cerebrale complesso. Un animale, con occhi differenti, vedrebbe il mondo in modo completamente diverso, e per “fotografarlo” dal suo punto di vista bisognerebbe costruire un obiettivo adatto alla sua percezione. Inoltre, tra due valori preimpostati della macchina esistono infiniti passaggi intermedi che restano invisibili per ragioni pratiche, ma in cui si nasconde spesso ciò che apre lo sguardo a prospettive inattese.

Fotografare, in questa prospettiva, diventa un esercizio di apertura e di ascolto. Significa accettare che ogni immagine selezioni, interpreti e lasci fuori elementi che, pur invisibili, continuano a influenzare ciò che è stato incluso. È un gesto che rinuncia alla pretesa di racchiudere tutto e che, proprio per questo, lascia spazio alla sorpresa e alla scoperta.
L’assoluto non può essere rappresentato né posseduto: può solo essere intuito. La fotografia, proprio grazie alla sua incompletezza, può alludere a questa dimensione. Non congela il tempo per imprigionarlo, ma lo attraversa, lasciandolo fluire. Il vero scatto non è quello che si impone come definitivo, ma quello che ci restituisce la consapevolezza del limite e dell’apertura. In questo sta la sua forza filosofica: ogni chiusura ci allontana dall’assoluto, ogni apertura ci avvicina.

Enzo Comin (Pordenone, 1979) vive e lavora a Gorizia. Artista visivo, performer e scrittore, unisce linguaggi diversi con particolare attenzione alla fotografia realizzata con pellicole e fotocamere d’epoca o modificate. Dal 2009 partecipa a mostre, pubblicazioni e residenze d’artista in Italia e all’estero, ricevendo premi per opere visive e testi letterari. Autore di raccolte poetiche, saggi e narrativa, ha pubblicato Vangelo Pratico (2020) e il romanzo Armonia delle resistenze (2024), segnalato al Premio Mario Luzi, e lancia la fanzine The journey, dedicata alla vita degli artisti.

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